loc. Bagni di Masino SO (1.170 m slm) – Rifugio Gianetti (2.534 m slm) – Pizzo Badile (3.308 m slm) – disliv. compl. 2.160 m – disliv. Via Normale 400 m – PD+ Alpinistica, esp. SUD
Ed è finalmente toccato anche al Piz Badile (così chiamato in romancio, una sorta di ladino svizzero). Questa “gita” ce la ricorderemo sicuramente per l’incredibile bellezza del paesaggio, ma anche per la fatica, incrementata da qualche incidente di percorso.
La Val Porcellizzo la ricordavamo meravigliosa sin dai tempi della salita al Cengalo (è un album molto vecchio, quindi i commenti li troverete tutti cliccando sulle singole foto): e fortunatamente così è rimasta, una sorta di paradiso terrestre con mucche e cavalli al pascolo, che anticipa la bellezza dell’anfiteatro dei Giganti, sfondo naturale del Rifugio Gianetti.
La salita lungo la normale poi è stata caratterizzata da qualcosa che non ci aspettavamo: la presenza di una delegazione dei Ragni di Lecco, venuti qui per dare l’estremo saluto al compagno e alpinista Matteo Bernasconi spargendone le ceneri sulla cima. Non lo abbiamo certo fatto apposta, ed è stato emozionante: oltre al fatto che stando dietro a loro forse abbiamo evitato di perderci quelle due – tre volte lungo un percorso che in questa stagione, con ancora parecchia neve, è stato meno intuitivo del previsto. Infatti lo abbiamo un po’ complicato, rispetto al III grado d’ordinanza.
Avvicinamento fino al rifugio Gianetti (già in sé una bellissima escursione)
Ai Bagni di Masino si può lasciare l’auto (sempre se si trova parcheggio!) pagando un obolo di 5 €; da qui si seguono i segnavia verso il Rifugio Gianetti (noi ci abbiamo messo le consuete 3h 30” con zaini molto – troppo – pesanti).
La salita è dapprima su mulattiera, nel bosco, per poi aprirsi sui primi pascoli in quota di Corte Vecchia (m 1.405), dove spesso si vedono pascolare dei cavalli. Subito dopo si passa attraverso due grandi massi detti “Termopili” fuori dai quali potrete notare una strana scritta in greco (noi pensavamo fosse russo… beata ignoranza!): è appunto il loro nome, datogli dal conte Lurani che ebbe questa suggestione quando le attraversò nel 1878.
Dopo un altro breve tratto nel bosco si arriva ad altri pascoli, detti della “rösa” ove sovente si incontrano le muuuuuucche; il sentiero poi sale ripido sino ad un guado di torrente (sempre molto piacevole, in questa stagione), e ancora oltre guadagnando faticosamente il primo netto salto della valle dove la vegetazione d’alto fusto scompare per far posti ad ampi pascoli. Siamo arrivati alla grande conca aquitrinosa dove si trova la casera Porcellizzo (m. 1.900). Superato il ponticello potrete vedere il rifugio Gianetti sopra di voi e vi sembrerà vicino… ecco, non è affatto così! Mancano ancora 600 m di dislivello.
Si risale infatti ancora lungamente, seguendo i bolli rossi e gli ometti, fino a guadagnarsi la meritata birretta all’arrivo!
Che per noi ha coinciso quasi con l’ora di cena, sempre piacevole al Gianetti: qui abbiamo fugato ogni dubbio sulla presenza dei Ragni di Lecco, e anche sulla possibilità di salire l’indomani la Marimonti alla Punta Sertori: troppo stanchi anche solo per pensarlo, ripieghiamo sulla normale del Badile, che comunque ci manca.
Avvicinamento dal Gianetti all’attacco della Normale italiana
L’attacco della via si vede chiaramente già dal rifugio, bisogna risalire la morena per ometti verso l’evidente spigolo di cresta, l’ultima parte nel nostro caso su neve perfettamente rigelata. Dal Gianetti ci vuole circa 1 h.
Secondo il gestore del rifugio, persona simpatica e disponibile, i ramponi non sarebbero serviti, ma noi li abbiamo portati lo stesso: e a posteriori abbiamo fatto bene perché seppure si tratti di un pezzo assai breve e privo di rischi, il conoide di neve che porta al camino e alla placconata alla sinistra della cresta, un pochino si impenna e con neve dura rischia di diventare una seccatura.
Siamo i primi a raggiungere l’attacco, ma presto saremo in buona compagnia!
via Normale italiana al Piz Badile
Dividere questa via in tiri è complicato: soprattutto perché noi, incentivati dalla presenza dei Ragni e con i canalini detritici ancora innevati che in estiva sarebbero LA via, siamo con tutta probabilità saliti su alcune varianti, complicandocela un po’ e aumentando il grado, soprattutto nella seconda parte. Ma è stato bello così!
In generale la via (quella che abbiamo percorso noi) è tutta da proteggere: di chiodi manco l’ombra, detto questo almeno ci si può appoggiare alle soste di calata.
Il modo migliore per affrontarla è in conserva lunga, sui 15/20 metri. In estate è sicuramente meglio usare una scarpa leggera e tecnica con la suola in Vibram, con la neve mi sentirei di consigliare almeno uno scarponcino mediamente rigido.
Il primo “tiro” lo si può fare o salendo dal camino (una sosta a 1/3) oppure risalendo la placconata seguendone l’evidente spaccatura diagonale ascendente fino a guadagnare la crestina, che si segue in salita. Svoltando dietro lo spigolo sul versante est, passando sotto a un tettino, si raggiunge il camino di III+ alla base del quale sono presenti numerosi cordoni. Questi servono sia per la sosta sia per il faticoso passo che serve per raggiungere la parte più scalabile del camino stesso, appena più in alto.
Si raggiunge così la croce Castelli-Piatti, da cui poi si risale in un’ampia spaccatura appigliatissima dapprima verticale fino a guadagnare un comodo traverso, che con svariati sali scendi, camminando seguendo gli ometti, conduce alla base dell’immenso canalone sud.
Da qui si sale lungamente seguendo uno dei due canali più appigliati (forse meglio quello di sinistra visto che quello di destra è uno scolatoio a rischio scariche… indovinate noi dove siamo saliti?!) per poi traversare verso sinistra e guadagnare il fianco della montagna, un susseguirsi di placche appoggiate e lavorate con alcuni risalti (sui quali ci siamo allegramente complicati la vita).
Si risale diagonalmente sino ad arrivare di nuovo sul filo di cresta, in corrispondenza di un grosso pinnacolo roccioso e in vista della vertiginosa parete ovest: qui è visibile una sosta piuttosto nuova, la prima delle soste a spit da 60 metri usate dal Soccorso Alpino (che ci hanno vivamente sconsigliato di utilizzare per la discesa).
Si segue a questo punto un canalino appoggiato alla cui sinistra si innalza la parete di cresta, fino ad arrivare a un canale detritico (che nel nostro caso era coperto di neve) che traversa da sinistra a destra diagonalmente, poi da destra a sinistra fino in vetta: dovrebbe essere questa la normale, ma noi abbiamo preferito la variante! Abbiamo dunque attraversato il canale nevoso per pochi metri, fino a guadagnare la placca fessurata che, dritto per dritto, conduce fino alla cima: c’era addirittura un vecchio chiodo.
La cima era parecchio affollata – dai Ragni di Lecco e da altri alpinisti – e noi parecchio stanchi a questo punto: tuttavia riuscire a traguardare l’orizzonte a 360° senza un minimo di foschia, da quassù è stato …da vertigine! Ci abbiamo messo 4 h dall’attacco, possiamo essere più che soddisfatti.
Discesa
Non è finita fino a che non si è a valle: oltre tutto la discesa è bella lunga e consiste in millemila calate brevi (max 30 m), a meno che non siate ancora abbastanza lucidi da voler disarrampicare in libera.
Noi non abbiamo fatto altro che ricalcare più o meno la via dell’andata: molte soste già le avevamo individuate salendo, altre ci si sono palesate al momento opportuno. L’unico punto in cui bisogna fare un po’ di attenzione è il traverso dove si cammina, perché ad un certo punto una traccia che scende verso sinistra può trarre in inganno (noi ci abbiamo perso un’ora tra sbagliare, cercare di capire se comunque da lì si riusciva a scendere, rinunciare, disincagliare le corde, tornare indietro ecc); la traccia giusta, in corrispondenza di una freccia sbiadita disegnata su roccia, risale un pochino verso destra, riguadagnando la croce Castelli-Piatti.
Noi avevamo portato un’unica corda da 60, che per le doppie andava più che bene, doppiata, anche perchè la possibilità di incastro è elevata quindi non sappiamo quanto convenga fare calate da 60 m complessivi.
Giudizio
Via di grandissima soddisfazione: se avete la fortunissima di farla con cielo terso, come è capitato a noi, i paesaggi e l’ambiente sono di prim’ordine. La roccia è in generale un buon granito, bello ruvido, anche se in alcuni punti sono presenti sfasciumi pericolosi, soprattutto per chi sta sotto; e la montagna un pochino scarica…
L’arrampicata è sempre plaisir, ma il percorso è lungo e – in questa stagione, non sappiamo come sia in piena estate – è facile sbagliare: si può salire in più punti ma molto dipende da quanto siete in confidenza con le vie di montagna… gradi semplici ma percorso non scontato, pochissimo segnato in alcuni tratti, considerato anche che non ci sono protezioni a fare da guida.
Postfazione
Poi succede che una volta atterrati di nuovo sul nevaio, stanchi morti, con la sola volontà di raggiungere il Gianetti per una birra prima dell’eterna discesa…. qualcuno si ricordi di non avere più con se lo zaino. Come ca$$o si fa a dimenticarsi lo zaino?! Come ca$$o è possibile che il compagno non se ne accorga?! Ma soprattutto… dov’è stato dimenticato lo zaino, a quale sosta?!
E via, a risalire di nuovo il nevaio e rifare il primo tiro sulla placconata, riguadagnare lo zaino, riscendere. E’ proprio vero che non è mai finita, se non quando sei di nuovo a valle… a volte però nemmeno in quel caso 🙂
Disclaimer
Attenzione: Le attività che si svolgono in montagna quali alpinismo, arrampicata, scialpinismo, ma anche il semplice escursionismo possono essere potenzialmente pericolose: la valutazione del rischio spetta alla responsabilità di ognuno singolarmente, in base alle proprie condizioni psico-fisiche e alle condizioni ambientali. Relazioni e descrizioni all'interno del blog sono frutto della nostra personale esperienza, possono contenere imprecisioni nonostante la nostra attenzione; le foto e i video possono essere utilizzati esternamente solo a fronte di richiesta e autorizzazione scritta.
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